2 is meglio che 1
La MotoGP 2014 è ormai giunta agli sgoccioli. La stagione si concluderà con il gran premio di Valencia, il prossimo 9 Novembre. Eppure, nel corso dell’anno, più gli appuntamenti di gara avanzavano, più trovavo estremamente esilarante tornare alle dichiarazioni di qualche anno fa di alcuni big del motociclismo. Ritengo doveroso, pertanto, condividerle con voi.
Inizierei dal più grande, Giacomo Agostini, in una sua affermazione del 2012: “Al momento mi ricorda un’arancia troppo spremuta: la si può spremere quanto si vuole, ma di succo non ce n’è più. Se mancano le motivazioni, non si può correre come si è capaci”.
Carlo Pernat, sempre nel 2012: “Non vedo posto per lui né in Yamaha né in Honda. Ora deve concentrarsi sul presente, il momento è difficile e non gli permette di esprimersi come vorrebbe. Quel che è certo è che se continua così può pure iniziare a pensare alle quattro ruote…”.
Jeremy Burgess, 2013: “Ho un grande rispetto per lui per quanto fatto in passato, ma tutti sappiamo che ormai è agli sgoccioli della sua carriera e non riesce a spiegarsi perché i suoi avversari siano più veloci di lui. Probabilmente pensa di essere ancora quello di 10 anni fa”.
Mick Doohan, 2011: “Sono 12 anni che è in alto e potrebbe pagare questa cosa. Non dico che la sua carriera è finita, ma è nella fase discendente”.
E ancora, Marco Lucchinelli, 2013: “Il problema è che ci ha abituato a vincere tantissime gare all’anno e ora ci fa strano che non sia con gli altri sul podio. Prima o poi dovremo accettare il fatto che sia finito il suo periodo d’oro.”
Infine, ma non meno importante, Casey Stoner, nel 2012 sentenziò: “Per molti anni è stato l’unico, ora la storia è cambiata e magari la gente vuole sentire anche gli altri piloti, perché forse la sua opinione non è corretta. E ora che i risultati non sono quelli del passato, quando perde è un altro. Io, se vinco o perdo, sono la stessa persona”.
Se non fosse ancora abbastanza chiaro si tratta di lui, del dottore, del 46, di Valentino Rossi.
Per apprezzare appieno le precedenti affermazioni è meglio contestualizzare l’odierna situazione in MotoGP: per chi non lo sapesse Marc Marquez ha vinto (di nuovo) il titolo di campione del mondo il 12 ottobre, sulla pista giapponese di Motegi. Valentino Rossi è secondo in campionato a +12 punti da Jorge Lorenzo, suo compagno di squadra (che utilizza quindi la stessa moto), terzo.
È difficile parlare di Valentino senza cadere in banalità o senza ripetere affermazioni già dette sul suo conto, non posso limitarmi a scrivere che quest’anno sia stato ricco di soddisfazioni, che a più riprese abbia bastonato i suoi avversari, che sia tornato sulla cresta dell’onda, che è un Rossi totalmente diverso dai suoi recenti trascorsi; non è sufficiente, non gli rende l’adeguata giustizia.
Basta partire da semplici premesse, quali 35 anni d’età, 18 stagioni di corse sulle spalle, una Yamaha tecnicamente in crescita ma non ancora al livello della Honda, i 3 rivali più agguerriti e competitivi che abbia mai avuto. Sono solo alcuni degli ostacoli che il dottore quest’anno ha scavalcato a suon di staccate e sorpassi da cavallo di razza quale lui è. Se poi si pensa che viene da 3 stagioni intrise di difficoltà che lo hanno rallentato notevolmente (in tutti i sensi, tanto che “Va lentino” da nome è diventato caratteristica), si può facilmente intuire che entità abbia il suo recupero di quest’anno. Una portata pazzesca, su tutti i fronti.
Quella odierna, è una MotoGP totalmente diversa da quella che ricordano gli amanti delle prime 990, ho riguardato, qualche giorno fa, la gara di Sepang del 2002, e ho visto un Max Biaggi imporsi su un Valentino Rossi che costellò la gara di errori quasi a ogni giro, permettendo che Ukawa (suo allora compagno di squadra HRC Repsol) lo infastidisse. Ukawa, avete letto bene. Ciononostante Rossi arrivò secondo a pochi decimi da Max e, anche se i sostenitori del corsaro storceranno il naso, sarebbe bastato un altro giro per superarlo e trionfare in quella Malesia di 12 anni fa.
Quella attuale, invece, è una MotoGP che premia la perfezione, la costanza, il rendimento, il passo sul giro; basta un piccolo errore e ci sono già meno possibilità di vittoria ai piani alti. Il Valentino Rossi di allora probabilmente lotterebbe per il 10 posto (e lo dice un suo accanito sostenitore). Ma così non è stato. Valentino ha avuto anni di difficoltà, ma non ha mai smesso di evolversi, di progredire, di adattare il suo stile di guida di generazione in generazione; nella fattispecie, non ha mai smesso di crederci. Nella classe regina in cui i campioni limano il centesimo al giro, lui ha saputo dimostrare che con costanza, impegno, talento, enorme dedizione e professionalità si può fermare l’orologio anagrafico. Del resto i numeri parlano chiaro: quest’anno, fino ad ora, ha conquistato il doppio dei podi della passata stagione (12) e il doppio delle vittorie (2). I meriti sono dati sia dal potenziamento fisico, che dal lavoro di messa a punto della moto, due strade che sono l’una la conseguenza dell’altra. In che modo? Rossi alla fine della scorsa stagione ha avuto di fronte a sé un bivio molto importante: reduce da un’annata in cui vedeva i primi tre (Marquez, Lorenzo e Pedrosa) sempre a 10 secondi davanti a lui al termine di ogni gara, si è chiesto se non fosse il caso di lasciar perdere. D’altronde, un animale da gara come lui, che monta in sella ogni domenica col solo obbiettivo di vincere, non avrebbe mai accettato di terminare in sordina una carriera incredibile come la sua, guadagnando podi solamente se qualcuno dei tre davanti fosse caduto.
Da qui la rischiosa decisione di allontanare Jeremy Burgess, storico capotecnico della sua squadra, per ingaggiare Silvano Galbusera, che, a detta sua, aveva già allora più motivazioni dell’australiano per tornare alla vittoria. Decisione semplice? Tutt’altro. Rischio? Enorme. Guadagno? Totale. Rossi ci ha visto benissimo, la sua scelta gli ha permesso di tornare a un livello di competitività impensabile; ma visto che nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo, nemmeno il diretto interessato, decise nella pausa invernale di lavorare duramente sulla sua preparazione fisica. Proprio perché non era sicuro della riuscita del suo piano; sperava fortemente che le prime gare di questa stagione andassero come sono andate, ma non ne aveva la certezza: un nuovo capotecnico e una nuova messa a punto, dopo anni passati assieme ad un’altra persona di riferimento, sono una bella incognita. Da lì la decisione di prepararsi più dei suoi avversari dal punto di vista fisico. Decisione che ha ampiamente pagato e lo si è visto proprio domenica scorsa, a Sepang, quando l’unico a riuscire a tenere il ritmo di Marquez sia stato proprio il dottore, costringendo anche un atleta come Lorenzo a tirare i remi in barca; lui stesso si è dichiarato esausto al parco chiuso appena finita la gara.

Non vi bastano come motivazioni? Pensate con quanta solerzia e con quanto interesse Valentino mette a punto la propria moto: è una cosa che l’ha sempre affascinato e catturato, fin da quando correva in 125. Chiedetevi ora quale altro campione delle ultime generazioni sia stato dedito tanto quanto lui alla preparazione tecnica del suo mezzo e per quanto tempo sia rimasto ad alti livelli quanto lui in questo sport. Non ve ne viene in mente nessuno? Non ci trovo nulla di strano.
I suoi (sempre più numerosi) detrattori potranno dire che è Marquez che ha vinto gli ultimi due campionati mondiali, ed è innegabile. Così come sia innegabile la superiorità del ragazzino nei confronti del resto dei piloti del mondiale; Marc Marquez è il nuovo 46, sono della stessa razza, si sa, e si stimano reciprocamente (per ora), ma a far parlare i giornali è sempre lui, Valentino. Nonostante i record del bimbo prodigio, nonostante la sua schiacciante superiorità di inizio stagione, nonostante il suo sorriso a 95 denti che sfoggia ogni secondo; Rossi è riuscito comunque a far risaltare maggiormente la sua impresa di quest’anno: tornare ad essere The Doctor, tornare a vincere, o quantomeno ad avere le armi per provarci. Marquez è il numero 1? Beh, 2 is meglio che 1.