Effetto Warriors.

Effetto Warriors.

Ha detto bene Daryl Morey, GM dei Rockets, “la Nba è una corsa agli armamenti, puoi stare a bordo campo a guardare, oppure prendere parte alla corsa”.
Nelle ultime ore è giunta da oltreoceano la notizia che Chris Paul ha deciso di cedere alle lusinghe della squadra texana, andando a formare con il Barba James Harden uno dei back-court potenzialmente meno arginabili degli ultimi quindici anni.
Paul ha infatti optato per rientrare nel proprio contratto con i Clippers per permettere a quella che nelle ultime sei stagioni è stata la sua franchigia di imbastire una trade quasi in segno di ringraziamento verso quella che è stata e probabilmente non sarà più Lob City.
Con buona pace dei vari Jordan e Griffin, che per anni hanno beneficiato (assieme al loro conto in banca) delle magie del folletto da Wake Forest, non vedremo più carrellate di highlights a tinte bianco-rosso-blu e con buona probabilità si andrà verso un ritorno della banda di Luke Walton al ruolo di prima squadra cittadina.

La mossa di Paul anticipa di qualche giorno l’inizio della Free Agency e risponde al desiderio di tutti gli All-Stars della Lega di mettersi un dannatissimo anello al dito prima del tramonto delle proprie comunque luminose carriere.
Decine di giocatori prima di Paul hanno fatto scelte simili, a partire dai Big-3 di Boston che alla corte di Doc Rivers si unirono per portare il titolo al TD Garden, passando per l’epopea di Lebron James, fino ad arrivare all’ultima credibile versione dei Lakers dove al fianco di Kobe figuravano giocatori del livello di Gasol, Howard e Nash.
A ben pensarci la figura del prode eroe che attorniato da semplici comprimari raggiunge la cima più alta della montagna suona piuttosto anacronistica o forse più semplicemente falsa ed irrealizzabile; i più attenti mi diranno che prima Iverson e poi James ci sono andati parecchio vicini, vero ma farcela è un’altra cosa.
La realtà è che quelli che volgarmente vengono definiti “superteam” sono sempre esistiti e quasi ogni squadra che ha potuto tenere tra le mani l’ambitissimo Larry O’Brien Trophy può a buon diritto ricevere questa, lasciatemelo dire, sgradevole etichetta.
Volete farmi credere che i Lakers dello Showtime di Magic, Jaabar, Worthy e Scott o gli acerrimi rivali dei Celtics con Bird, Parish, McHale e Walton non lo fossero? O che la dinastia Spurs non rientrasse nei parametri adatti per definirsi tale?
Ciclicamente ci sono franchigie che riescono per fortuna, abilità e strategia a risultare più appetibili di altre costruendo con il duro lavoro, un paio di buone scelte al draft e qualche trade azzeccata un gruppo di giocatori ed uno staff in grado di garantire alla squadra il ruolo di contender; normale e legittimo che alla scadenza del proprio contratto i migliori giocatori mirino a farne parte per poter ambire ai massimi livelli.

I Golden State Warriors, freschi campioni Nba, hanno seguito esattamente questo iter scommettendo su un gracile Steph Curry (2009) alla scelta numero 7 del draft, su Klay Thompson (2011) alla 11 e su Green (2012) alla 35, portando nella Baia veterani come Iguodala e Livingston e raggiungendo con merito il ruolo di contender nel giro di pochi anni.
Non deve stupire, nè indignare se nella scorsa estate uno dei migliori giocatori del pianeta come Kevin Durant abbia deciso di legarsi alla truppa di Kerr per conquistare il tanto anelato titolo, portando all’estremo questa tendenza che non è ovviamente iniziata con lui e con il 35 nemmeno finirà.
Certamente l’ex commissioner David Stern storcerà il naso nel vedere questo processo di polarizzazione che il povero Adam Silver difficilmente può ostacolare e che sta conducendo la lega verso una dicotomia esasperata che si ripete ormai da 3 anni tra Warriors e Cavaliers, relegando le restanti 28 squadre al ruolo di mere comparse.
Veterani che accettano di firmare al minimo salariale per poter fare parte di una di queste due compagini nella corsa al titolo, All-Stars che accettano di buon grado il ruolo di secondo/terzo o perfino quarto violino per entrare nella storia dalla porta principale.
Tutto questo processo non può che assumere dimensioni ancora più imponenti per effetto proprio dell’uragano Warriors abbattutosi sulla lega, spingendo per primi i Cavs ed allo stesso tempo Celtics, Spurs, Rockets e Wizards a muoversi nel tentativo di firmare i migliori free agent sul mercato come George e Griffin oltre a Melo e Wade in uscita dalle loro franchigie.

Personalmente credo che il rischio maggiore di questo fenomeno sia la diminuzione della competitività in una lega che ha sempre cercato tramite regolamentazioni varie, non ultimo il salary-cap, di livellare il valore delle squadre per garantire una regular season più combattuta e dei playoffs di interesse mondiale sicuramente anche per l’incertezza delle partite.
La speranza è che le decisioni dei nomi più caldi di questa free agency vadano nella direzione di una ricerca dell’equilibrio, cercando di strutturare ancor di più squadre già attrezzate per restringere la forbice che li separa da Cavs e Warriors e rifuggendo così dall’incubo più ricorrente per Silver e soci, la prevedibilità.

Passo e chiudo.



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