GAME OVER? La Death Lineup al suo massimo.
Nella pallacanestro odierna, la formula perfetta per vincere nessuno la conosce e nessuno mai la conoscerà, semplicemente perché non esiste.
Le scorse Finals NBA ci hanno mostrato come un organizzazione di gioco senza eguali nella Lega, che aveva condotto la truppa di Kerr ad abbattere il muro delle 72 vittorie dei Bulls, si sia sgretolata nelle ultime 3 gare della stagione, perdendo Titolo e certezze.
Il “day after” dei Golden State Warriors è stato costellato da critiche, dubbi e perplessità, per la maggior parte ingenerosi e fuori luogo, ma si sa, citando il compianto De André: “la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo…”, e lo stereotipo dilagante vuole che la sconfitta porti con sé il necessario fallimento dell’intero progetto e delle idee che l’hanno forgiato, senza la minima capacità di contestualizzare e di valutare a 360°, ma etichettando e crocifiggendo senza pietà.
Se a giugno 2015 la “Death Lineup” rappresentava la nuova frontiera per un basket vincente, esattamente un anno dopo, se ne evidenziano i limiti e le controindicazioni ed immediatamente l’impressione è che la tendenza si sposti verso altre direzioni, niente di più sbagliato.
In questo clima di incertezza, in casa Warriors, han pensato bene di non abbandonare la strada intrapresa, ma di rilanciare con un Kevin Durant in più nella Baia ed un chiaro avviso ai naviganti: “Don’t mess with us!”
Il sacrificio dell’ottimo Harrison Barnes (nei 12 di Team Usa a Rio) e di Bogut per creare spazio salariale per il 35 è stata una scelta obbligata e che per certi versi estremizza ancora di più la “small ball” di Steve Kerr, che potrà a questo punto contare su una batteria offensiva, che già era di primissimo livello in NBA e che ora si prepara ad essere decisamente fuori categoria.
La scelta di KD ha suscitato, come era lecito attendersi, polemiche, mugugni, proteste dei vecchi tifosi e critiche degli ex-giocatori in cerca della visibilità perduta negli anni.
Dopo essersi trovati avanti 3 a 1 nella serie, contro i campioni in carica, dominandoli dal punto di vista fisico ed a rimbalzo, con un’energia visibilmente maggiore, i Thunder sono stati travolti dalla resilienza degli Warriors che sono riusciti nell’impresa di ribaltare pronostico ed esito, riportandosi in finale.
Alla luce di questa cocente delusione ad un passo dal traguardo, erano in molti ad aspettarsi che Durant e compagni avrebbero ricominciato la prossima annata con l’unico scopo di vendicarsi e di tornare dopo 5 anni a tu per tu con il Larry O’Brien Trophy, ma questo non accadrà.
Infatti il nativo di Washington ha deciso di esplorare la free agency per poi accettare l’offerta dei Golden State Warriors, venendo meno a quell’imperativo morale che si pensa sia implicito in ogni atleta con un minimo di orgoglio ed assecondando il deplorevole motto: “se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico..”
Il più scosso di tutti da questa notizia pare sia stato Russell Westbrook che, fresco di rinnovo con i Thunder all’apprezzabile cifra di 85 milioni di dollari in 3 anni, ha dichiarato piccato: “Loyalty is something I stand by” e che rumors dicono non abbia ricevuto dall’amico (?) Kd nemmeno una telefonata, ma un semplice, misero sms.
Ogni opinione è per sua natura rispettabile (anche se tutta questa democrazia talvolta è nociva) ed ogni pensiero sulla scelta del 35 ha diritto di cittadinanza; resta il fatto che si tratta di una decisione professionale personalissima e va in questo senso rispettata. Certamente è sacrosanto che sia Durant a scegliere quale strada debba intraprendere la sua carriera, e non io, voi, il fornaio o l’edicolante. I conti si faranno poi alla fine.

Ad oggi ci ritroviamo con una corazzata all’apparenza invalicabile, decisamente complessa da mappare sul 28×14 e con un desiderio di rivalsa superiore a quello di qualunque franchigia nella Lega.
Da un punto di vista strettamente tecnico, la possibilità di schierare in un ipotetico finale di gara una front-line con Green, Iguodala ed il 35 complica ulteriormente l’assunto.
Aggiungere a questi un backcourt formato dagli “Splash Brothers” dovrebbe, senza mezzi termini, essere considerato illegale in 50 Stati ed invece l’incubo è realtà da ormai qualche settimana.
Pensare di difendere una situazione di pick’n’pop (o roll) con Curry da palleggiatore e Durant da bloccante o con lo stesso KD palla in mano e Draymond Green nel ruolo di bloccante può provocare forti emicranie e senza essere dei coach di alto livello possiamo candidamente ammettere che una soluzione a questo rebus non esiste e le contromisure che le avversarie di turno dovranno apportare saranno qualcosa di più affine alla preghiera.
Nello stesso spogliatoio siederanno, con buona pace degli avversari, i due migliori attaccanti della NBA, i migliori 3 tiratori puri della Lega, i due migliori all-around players della NBA (al netto di sua maestà Lebron ovviamente); sottolineando la presenza del sempre troppo “underrated” Klay Thompson che ha dimostrato ampiamente di avere le qualità tecniche, balistiche, fisiche, difensive, caratteriali da top-10 NBA ed il ruolo di leader emotivo di Green mai evidenziato a dovere.
A conti fatti sembrerebbe un successo annunciato: è già GAME OVER quindi? In definitiva crediamo di no, senza voler fare delle retorica da quattro soldi, è bene ricordare che le stagioni sono lunghe e la chimica tra nuovi compagni non è mai da dare per scontata; premesso ciò è doveroso ammettere come a memoria fatichiamo a ricordare un pronostico così spiccatamente sbilanciato verso una squadra già ad Agosto.
La determinazione di Durant, il suo livello umano e (ci sbilanciamo) morale, ci impediscono di storcere il naso di fronte alla sua decisione, ma prendiamo semplicemente atto del suo desiderio di vittoria che all’alba dei 29 anni è quantomai ardente e che lo ha portato ad una scelta a dispetto delle apparenze non semplice.
Abbracciare un’organizzazione capace di 73 vittorie su 82 partite è sicuramente la strada migliore da intraprendere ed a detta dei suoi detrattori anche la più comoda; resta il fatto che nessun rookie appena mette piede nella NBA firma un contratto che lo vincoli a percorrere il cammino più lungo e tortuoso per vincere, quindi cerchiamo di abbandonare questa convinzione che voglia i successi sempre figli di imprese insperate ed incomprensibili ma anche come risultato di scelte giuste ed intelligenti e perché no, migliorative.
Durant ha dimostrato di essere un vero MVP, di essere un leader silenzioso ed un killer ineguagliabile in campo e nondimeno un uomo rispettoso e rispettato fuori dal parquet e per questo crediamo che meriti tutta la considerazione che si è guadagnato ed il supporto che, lovers o haters che siate, spetta ad un grande campione.
Passo e chiudo.