Finì tutto il 26 aprile 2009. Finì tutto quel giorno, o forse era già finita da un pezzo.
L’Inter si apprestava a vincere il suo 17esimo tricolore, il primo dell’era Mourinho, l’ultimo di Adriano in maglia nerazzurra, che in quel giorno disse addio all’Italia e a quei tifosi che negli anni precedenti l’avevano elevato ad icona della propria fede.
Già da due anni la squadra era passata nelle mani di un certo Ibrahimovic, il cui avvento aveva sancito una sorta di passaggio di consegne al centro dell’attacco nero-azzurro e nei cuori del popolo interista che in qualche modo però rimarrà per sempre legato al ricordo, seppur sbiadito, dell’unico vero Imperatore.
Finì tutto in quel giorno di fine aprile ed iniziò 8 anni prima, nella calda estate del 2001.
Ronaldo era ai box per l’ennesimo infortunio, questa volta il tendine rotuleo aveva interrotto la corsa del giocatore più forte e straripante del pianeta ed i soldoni del dottor Massimo Moratti bussarono alle porte del Flamengo per strappare alla concorrenza la nuova speranza del calcio brasiliano.
Adriano Leite Ribeiro si presentò ai suoi tifosi con quella prodezza che non sto nemmeno qui a descrivervi.
Era calcio d’agosto, ma l’avversario si chiamava pur sempre Real Madrid ed i tifosi nero-azzurri ebbero l’impressione di vedere in campo per dieci minuti scarsi il loro Fenomeno, più giovane e fresco.
Quel missile che bucò le mani di Iker Casilias presentò l’Imperatore al calcio europeo e fu il preludio di un pensiero di calcio e di calciatore quasi futuristico, per certi versi mai visto.
Adriano fece un tour dell’Italia di tre anni, tra Firenze e Parma, condito da quasi 30 reti e da innumerevoli lampi di classe e strapotere fisico/atletico, risparmiandosi quel tragico, sportivamente parlando, 5 maggio 2002.
Non prese parte nemmeno all’eliminazione nell’edizione successiva della Champions League per mano dei cugini in semifinale, era l’Inter dell’eroe nazionale Bobo Vieri e dei vari giovani o presunti tali Obafemi Martins e Kallon, orfana del Fenomeno Ronaldo, partito con destinazione Madrid.
Nel gennaio del 2004 la 10 era pronta per lui e ad attenderlo c’era un altro ex-numero 10 appena arrivato sulla panchina interista dalla Lazio, Roberto Mancini.
I successivi 4 anni con la maglia dell’Inter sancirono la sua definitiva consacrazione ed il suo approdo tra i migliori calciatori del panorama mondiale.
La squadra allenata da Mancini in quel periodo vinse 3 scudetti, 2 coppe italia e 3 supercoppe, complice anche la questione Calciopoli nella quale sinceramente non ci interessa addentrarci.
Il trascinatore in campo fu a tutti gli effetti Adriano, che dovette assistere nell’estate del 2005 alla partenza del compagno di reparto Christian Vieri dopo 103 reti in 144 presenze, divenendo primo riferimento tecnico ed emozionale della squadra.
Per tutti quelli della mia generazione (anni ’90), i ricordi sportivi di quegli anni sono fortemente legati all’Imperatore.
La mia fede calcistica mi ha condotto altrove ma a quei tempi non serviva di certo essere interisti per ammirare le prodezze di Adriano.
Due reti, a mio modesto parere, descrivono decisamente meglio di mille parole il calciatore che fu, ahinoi, per così poco tempo.
Il primo dei due fu il gol realizzato contro il Basilea, in trasferta, in Champions League.
Minuto 18, Adriano combatte all’altezza della trequarti avversaria per il controllo del pallone per poi scaricarlo sulla fascia sinistra a Stankovic che gliela restituisce al limite dell’area di rigore.
In questo momento, Adriano esita per un istante attirando a sè un primo difensore svizzero, poi tocca il pallone prima con il destro e poi con il sinistro allungando la falcata e seminando il malcapitato di turno; a questo punto un secondo difensore si getta in una disperata scivolata, scalciando ripetutamente da dietro per cercare per lo meno di atterrare il 10, ovviamente invano. E’ il turno del portiere che esce sui piedi del brasiliano cogliendolo apparentemente in un attimo di parziale sbilanciamento, qui Adriano getta in avanti il peso del corpo, allunga la sfera con il piede sinistro, accelera in una maniera incoerente per un colosso di 90 kg per poi scaraventare il pallone in porta.
Se non erro, era da poco venuto a mancare il padre e lo conferma la commossa esultanza, gli indici rivolti al cielo in uno sfogo eloquente, in un affannoso saluto, meraviglioso.
Il secondo è il più memorabile, in qualche modo forse il più scontato.
La galoppata contro l’Udinese a San Siro.
Dopo 50 metri di corsa il telecronista parla di jet-lag, forse era reduce da una trasferta con la selecao verde-oro, fatto sta che su calcio d’angolo dei bianconeri ribattuto dalla difesa, l’Imperatore raccoglie il pallone nella propria trequarti e qui si inscena un inseguimento rocambolesco in stile LupinIII, con il primo difensore nelle vesti di Zenigata che arranca cadendo sul manto erboso all’altezza della metà campo.
I successivi due stoici friulani vengono dribblati quasi fossero due sagome di cartone ed infine uno splendido mancino a giro forte e preciso completa l’opera d’arte. Un capolavoro.
Sicuramente, proprio in quegli anni di gioventù semi-onnipotente germogliava il vizio, il vizio che a tutti gli effetti lo ha sconfitto, che lo ha portato ad uno spreco di talenti e di possibilità tra i più memorabili nella storia del calcio e dello sport in generale.
Fece due annate che si possano davvero considerare entusiasmanti, dal 2004 al 2006 mise a segno 29 gol in campionato e 16 in Champions League dove mostrò al mondo tutto il suo repertorio.
Dal post-calciopoli fu una lenta discesa per le successive due stagioni, passò la prima metà del 2008 in Brasile al San Paolo per poi tornare a Milano per quella che a tutti gli effetti sarebbe stata la sua ultima in maglia interista.
Poco o niente. Un gol di braccio al Milan, tanti chili in sovrappeso, tanta cronaca per le sue notti brave, gli infortuni e gli spezzoni inconsistenti di calcio giocato per poi finirla definitivamente.
Ci provò ancora con il Flamengo, perfino con la Roma, con il Corinthians, con l’Atletico Paranaense, ma con l’esclusione dal mondiale in Sudafrica per mano di Dunga nel 2010 la sua parabola finì.
Non intendiamo descrivere il momento nero della sua vita che ancora purtroppo non è terminato.
Non abbiamo deciso di parlare, di ricordare Adriano per le prostitute o le bottiglie di rum in eccesso, per i festini e le notti di degrado.
Vogliamo semplicemente ricordarlo per ciò che ha dimostrato di poter essere, per come ha saputo mostrare il suo lato migliore seppur per brevissimo tempo.
Vogliamo ricordare le falcate, i dribbling, gli avversari spazzati via in stile Mark Lenders, la potenza terrificante del suo tiro con cui scaraventava orde di palloni alle spalle dei numeri 1 di mezza Europa, da Casilias in poi.
Gli spagnoli quando devono descrivere una persona un tempo famosa caduta in disgrazia, parlano di “juguete roto”, ciò che per noi sarebbe un giocattolo rotto.
Questa espressione rende perfettamente l’idea di quello che è accaduto all’Imperatore, racchiude il rammarico, la solitudine e la tristezza del destino che lo ha fagocitato.
Pare che Adriano sia ad un passo dall’addio al calcio giocato, ma questo è il problema minore, la preoccupazione in questi casi va rivolta all’uomo, al ragazzo.
La speranza che a 33 anni riesca a rimettere insieme i cocci della sua vita di certo non è molta ma vogliamo augurarglielo ad ogni modo, e di cuore.
L’ultimo cenno lo meritano di diritto i tifosi dell’Inter che per anni, sulle note di “Sarà perché ti amo” hanno inneggiato al loro campione, al campione più rappresentativo del recente passato, eroi del Triplete esclusi ovviamente.
“Che confusione, sarà perché tifiamo, un giocatore che tira bombe a mano, siam tutti in piedi per questo brasiliano, batti le mani, che in campo c’è ADRIANO!!!”