Long Live the King.
La testa mi dice “aspetta”, il cuore mi dice “buttati”.
Ascolto il secondo, abbandono qualsiasi velleità di imparzialità e di oggettività e mi schiero apertamente dalla parte di questi Cavs.
La testa mi dice di aspettare, di pazientare, di attendere l’atto Finale prima di giudicare la stagione dei ragazzi di David Blatt.
La finale con i Golden State Warriors presenta più di un’insidia e si sa, l’ardua sentenza dei posteri non è mai comprensiva verso chi fallisce nel momento decisivo, quindi faccio un piccolo passo indietro e limito il mio giudizio al loro condottiero in campo e fuori. il 23.
Perdonate la blasfemìa, il 23 è uno ed uno soltanto e questo novello 23 spesso ha vestito anche il 6, quindi a scanso di equivoci, abbandono la numerologia (che brutta parola) e mi attesto su un livello, per così dire, anagrafico. Mi limito al giudizio quindi di Lebron Raymon James.
L’esaltazione della soggettività e del gusto personale che il nostro blog (www.illatob.it) impone, pena la ghigliottina, mi obbliga a gettare la maschera e a confessare la mia totale parzialità in questa faccenda ed il mio amore incondizionato (from day 1) per il “kid from Akron”.

L’11 luglio scorso, tramite Sports Illustrated, Lebron James annunciava al mondo il suo ritorno a casa, il suo ritorno ai Cleveland Cavaliers, “I’m ready to accept the challenge, I’m coming home”.
Riletto ora questo pezzo provoca scompensi emotivi, svenimenti e crisi di pianto in noi “seguaci”.
Sembra una scenografia in stile hollywoodiano, la perfetta parabola del figliol prodigo che sente il bisogno di andarsene, lascia casa, cresce, vince, diventa grande, sente il desiderio di redimersi presso la sua gente, abbandona South Beach per cercare di dare speranza ai suoi primi tifosi, per far provare anche a loro quelle emozioni che lui è stato in grado di provare a Miami, emozioni che vuole portare a Cleveland, alla gente del Northeast Ohio.
Aggiunge che sarà difficile, che vuole essere un mentore per i più giovani, che il percorso sarà pieno di insidie ma intende spendere il crepuscolo della sua carriera nel tentativo di portare un trofeo a casa sua. Chiaro e limpido.
La stagione dei Cleveland Cavaliers è l’esatta fotografia che James aveva immaginato.
A gennaio la squadra vaga nel mezzo della scadente Eastern Conference con un record negativo, il gioco non c’è, l’esordiente (in NBA) David Blatt non sembra in grado di imporre la propria idea, il feeling dentro e fuori dal campo tra Love e James non arriva ed i motivi per sorridere sono assai risicati.
Poi arriva Febbraio, la trade-line, l’arrivo di JR Smith, Shumpert e Mozgov, un’identità di squadra a lungo anelata che finalmente sembra emergere, diverse vittorie ed un Lebron James, che per larghi tratti della regular season ha colpevolmente preferito le ciabatte alle abitudinarie Nike, che finalmente sembra deciso ad ingranare almeno la seconda.
Arrivano i Playoffs con il secondo record assoluto ad est, spazzati via gli eroici Celtics, perso Love per infortunio, il tutto comunque con la netta sensazione che al primo vero scoglio i Cavs si sarebbero sciolti come la proverbiale neve al sole.
Proprio qui qualcosa di inspiegabile è scattato, nella semifinale di Conference con i Chicago Bulls, sotto 2 a 1 nella serie, con Kyrie Irving menomato da innumerevoli acciacchi (tendinite al ginocchio, distorsione alla caviglia) praticamente a meno di mezzo servizio, con un James fortemente limitato da Butler, ed un Rose in ascesa esponenziale qualcosa si è acceso.
L’interruttore l’ha premuto proprio il figliol prodigo. LBJ.
Buzzer beater per vincere gara-4 allo United Center, e successive due gare dominate trascinando comprimari come Smith, Della Vedova e Thompson al ruolo da protagonisti. 4 a 2 nella serie e finale di Conference con gli Hawks in premio.
Il resto è storia recente. Sweep inaspettato ai danni degli uomini del Coach of the Year Budenholzer, che si arrendono in 4 gare alla furia dei Cavs, che dopo 8 anni tornano in Finale NBA.
Mi fermo qui nella narrazione della stagione degli “Wine & Gold”, dal 4 Giugno in poi saranno loro a scrivere l’ultimo capitolo, Steph e compagni li attendono ed ho l’impressione che di pagine da scrivere ce ne saranno parecchie.
La stagione di James, contestualmente alla caratura del giocatore, è stata poco più che sufficiente.
Ha per larghi tratti abbandonato quel gioco interno interno che gli ha permesso di eccellere e vincere a Miami, ha insistito alla nausea con isolamenti che fanno sì parte del suo repertorio ma che sono cresciuti a dismisura in questa stagione, peggiorando le percentuali in modo drastico dopo anni di continua ascesa.
Ha spesso dato l’impressione di “gigioneggiare”. Ha avuto a tratti l’atteggiamento insolente del primo Lebron, le troppe forzature, le numerose pause mentali, i cali di concentrazione che spesso lo hanno caratterizzato e condizionato nei primi anni si sono ripresentati.
Accendere l’interruttore a proprio piacimento non è pensabile. Nemmeno per lui.
Decidere di “fare sul serio quando conta” è pericoloso e diciamocelo, fosse uscito quel tiro a Chicago in gara4, i Bulls avrebbero verosimilmente vinto partita e serie e noi ricorderemmo il 17 su 55 delle ultime due gare, lo sfondamento su Dunleavy (che ha rischiato di compromettere tutto) ed i suoi detrattori avrebbero avuto di che gioire, ahimè, anche a buon diritto.
Così non è andata, quel tiro è entrato, e da quel momento stiamo assistendo alla cavalcata di un uomo in missione, ad una serie “for the Ages” del Re, con un leggendario 30,11,9 di media nelle 4 gare con gli Hawks.

It’s all about making shots. La pallacanestro è merce rara perché non ammette compromessi ma impone una netta dicotomia tra vincere/perdere, dentro/fuori, non esiste il pareggio.
Quel tiro è entrato e ci troviamo di fronte alla Quinta Finale Nba consecutiva per Lebron James (unico dai tempi dei Celtics di Russell a riuscirci) che nonostante militi nella Conference meno nobile ha aggiunto un tassello ai suoi record che merita rispetto.
Ma non siamo qui nemmeno a parlare di record, dell’aver sopravanzato Jordan nelle gare di PO con almeno 30,5,5, dell’aver superato Malone nei punti realizzati nella post season o dell’essere dietro al solo Magic Johnson per triple doppie sempre ai playoffs.
Siamo qui per incorniciare l’ennesimo passo in avanti nella carriera di quella che è a tutti gli effetti una “living legend”, sportivamente parlando, a soli 30 anni.
Siamo qui per raccontare una storia che ha davvero tanto, forse troppo, delle fiabe che si raccontano ai bambini prima di addormentarsi.
Siamo qui per celebrare un sogno che forse non si avvererà, Curry e compagni hanno tutta l’intenzione di impedirlo, ma che già ora ha assunto i connotati di una favolosa storia di vita e di sport che per noi inguaribili romantici abbandona per qualche metro l’ottica del business e del marketing.
Sarà Cavaliers contro Warriors, forse la finale che tutti speravano di vedere, sicuramente uno spettacolo già annunciato, con l’MVP Curry ed il Re in qualità di garanti eccellenti.
“I’m not promising a championship. I know how hard that is to deliver. We’re not ready right now. No way. Of course, I want to win next year, but I’m realistic”.
Voleva essere realistico 10 mesi fà, senza falsa modestia si rendeva conto di quanto fosse improbabile al primo anno essere una contender credibile.
Oggi, a dieci mesi di distanza, possiamo dire che Cleveland è una vera pretendente, una delle ultime due rimaste e questa volta sì, anche in caso di sconfitta si avrà ben nitido il senso del grandissimo lavoro svolto da James e compagni.
Come ogni anno, arrivati a Giugno, non resta altro da fare che godersi lo show.
Come ogni anno, ci saranno coriandoli colorati e lacrime, qualcuno con il Larry O’Brien Trophy in mano e qualcun altro che tra le mani reggerà solo la propria testa carica di delusioni e rimpianti.
Sicuramente sarà un ragazzo di Akron a sollevare il Titolo, già perché per gli amanti delle curiosità, anche il figlio di Dell è nato proprio lì, dove è cominciata la nostra storia e dove in ogni caso è destinata a terminare.
Ah, permettetemi un consiglio: Long Live the King, enjoy Greatness!
Passo e chiudo
