Once upon a time in Jugoslavia.

Once upon a time in Jugoslavia.

Qualche giorno fà ha compiuto 45 anni lo Zar.
Non pensate a nulla di strano, lo Zar in questione come avrete capito non è un qualche Nicola nè un qualche altro Alessandro e non ci troviamo a cavallo tra ‘800 e ‘900.
Lo Zar in questo caso è il signore molto sobrio e composto nella foto qui sotto.
Lo Zar è Pedrag, per tutti Sasha, Danilovic.
Non servono presentazioni, probabilmente il miglior basket visto sui parquet italiani o comunque per non far arrabbiare nessuno, uno dei primi 5 di sempre.
I tifosi della Virtus Bologna probabilmente si svegliano ancora tutti bagnati nel cuore della notte ripensando al tiro da 4 punti contro l’odiata Fortitudo, agli Scudetti, alle Coppe Europee, ad un uomo che mai nella sua vita ha fatto un passo indietro.
45 anni. Ha smesso 15 anni fà, molto giovane, troppo giovane ed oggi come allora, la sua storia di giocatore e di uomo fa riflettere, emblema di una generazione di uomini e giocatori nati sotto la stessa bandiera e cresciuti in un doloroso percorso di separazione e conflitti che ci ha privati di un collettivo immenso, di un gruppo che avrebbe meritato di essere unito fuori dal campo prima di tutto e poi, perché no, anche sui parquet di tutto il mondo.

Se non vi è ancora capitato di vedere lo splendido documentario di ESPN, “Once Brothers”, smettete immediatamente di leggere queste quattro righe e guardatelo. Poi tornate qui ovviamente.
In un’ora e spicci è raccontata la storia di Vlade Divac e Drazen Petrovic, amici fraterni e ragazzi prodigio del basket jugoslavo a cavallo tra anni ’80 e ’90, che si sono trovati divisi da una guerra tremenda che ha opposto le proprie bandiere e stracciato quella che li univa tutti, cambiando per sempre i destini territoriali e soprattutto umani della penisola balcanica.

Spesso ho pensato di scrivere di questi popoli, spesso il fascino di questo crogiolo unico nel suo genere mi ha spinto a voler approfondire, ma la paura di divagare, il timore di mancare di rispetto a qualcosa e/o qualcuno molto più distante da noi di quanto non dica la cartina geografica mi ha spesso indotto a desistere.
Però lo Zar spegne 45 candeline, quindi per l’occasione, faremo un tentativo. Srecan Rodedan Sasha!

Si parlava di Vlade, Drazen e Pedrag, ma è doveroso fare un passetto indietro, giusto per contestualizzare il tutto, come piace fare a noi.
Non ho intenzione di tediarvi con le Guerre Balcaniche (1912-1913) che hanno acceso la miccia per lo scoppio della Grande Guerra, non mi soffermerò su questi avvenimenti, ma sappiate che le etnie erano molteplici, che ognuno aveva pretese indipendentistiche e che nessuno, come scoprirete essere caratteristica peculiare di questi popoli, aveva intenzione di arretrare di un solo passo.
Con l’avvento di Tito, tutto sommato, con le dovute riserve, il “calderone etnico” fu tenuto sotto controllo, fino al 1986 ci fu una relativa quiete. Prima della tempesta per caso? Già.
Gli anni successivi alla scomparsa di Tito videro l’esplosione dei diversi nazionalismi, quello serbo guidato da Slobodan Milosevic, quello croato, quello bosniaco; per non parlare dei dissidi interni per motivi religiosi.
La regione dal 1991 al 1995 fu teatro di una guerra fratricida, dolorosa e senza quartiere.
Ci fu l’intervento della NATO che però non evitò quella che è stata una delle più sanguinose guerre dal ’45 ad oggi, quasi 100’ooo morti.
Una tragedia disumana le cui cause appaiono ancora oggi troppo deboli per avere una qualche pretesa di giustificare quanto accaduto. E posso garantire che sarà così per sempre.
Da quelle che passarono alla storia come “Guerre Jugoslave”, Serbia, Slovenia e Croazia si resero indipendenti creando una spaccatura fragorosa nella penisola ed anche la Bosnia Erzegovina divenne uno Stato a sè, diviso in due zone di influenza che permangono tutt’ora.

La storia la conosciamo o così si presume e si spera.
La spaccatura fu tremenda. La Jugoslavia come la si conosceva non esisterà più e l’odio che da tempo serpeggiava prese forma, amicizie fraterne furono sconvolte in nome di una guerra voluta prima da pochi e poi, quasi inconsciamente, da molti.

Anche le selezioni nazionali di qualsiasi sport subirono un duro scossone, episodi di insofferenza dilagarono ovunque, il vicino di spogliatoio con cui ci si confidava con cui si rideva e scherzava, da un giorno con l’altro divenne uno straniero da cui diffidare, un nemico con cui fu impossibile da quel momento in poi condividere obiettivi e fatiche.

Si parlava di Divac e Petrovic (due dei più grandi giocatori di basket europei di sempre).
Furono l’emblema di quanto dicevamo poche righe sopra, due fratelli che si trovarono divisi dalla politica, divisi dalla guerra, due slavi che divennero un croato ed un serbo, due connazionali che si trovarono ad essere stranieri l’uno per l’altro.
Questa spaccatura costrinse le compagini a fratturarsi. La corazzata jugoslava di pallacanestro che  aveva rappresentato il naturale contraltare europeo ai temibili statunitensi fu forzatamente sgretolato.
Per comprendere la portata di ciò di cui stiamo parlando, basti pensare che nel trentennio 1961-91, la Nazionale di Pallacanestro Jugoslava finì 13 volte in 17 manifestazioni sul podio. Un dominio.
Per quanto riguarda i Mondiali di Pallacanestro invece in 8 delle 11 edizioni che si disputarono fino al 1990, ci furono medaglie e 3 di queste furono d’oro.

Quello del 1990 fu l’ultimo Campionato del Mondo giocato come Jugoslavia e se ne tornarono a casa con la medaglia più preziosa.
Quello del 1991 fu l’ultimo Campionato Europeo giocato come Jugoslavia ed anche questa volta se ne tornarono a casa con l’oro al collo. L’unico scoglio reale furono i giochi olimpici dove chiusero con “soli” 3 argenti, senza mai scalzare URSS e USA dal primo gradino del podio.
Nel 1992 infatti, a sfidare il “Dream Team” in finale, c’era la Croazia di Petrovic e Kukoc e non loro, ma questa è un’altra storia.

Negli anni successivi alla guerra, in ambito sportivo, la Jugoslavia continuò ad esistere come unione di Serbia e Montenegro, e nonostante le defezioni in termini di uomini e di talento, i successi continuarono a ripetersi, incessantemente.
Furono esclusi dal Mondiale del 1994 e si presentarono nel 1998 con qualche conticino in sospeso, vincendo l’oro sulla spalle di Bodiroga e Rebraca nonostante assenze illustri quali Danilovic e Divac.
Quattro anni dopo, nel 2002, ad Indianapolis, gli States non mandarono più una compagine di ragazzini ma nonostante un grande Paul Pierce fuorono domati proprio da Stojakovic e compagni nei quarti di finale.
Nuova Zelanda e Argentina seguirono la stessa sorte ed il secondo oro consecutivo fu servito.
Anche nel Continente la striscia non si interruppe.
Nel 1995 fu oro davanti alla Lituania di Sabonis e Marciulionis (Divac MVP), nel 1997 fu oro ai danni di un’Italia in crescita (MVP Djordjevic), che si preparava a vincere due anni dopo con Fucka, Myers e compagni, relegando la Jugoslavia al bronzo.
Nel mentre ci fu uno storico argento alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996.
Perdonatemi, temo che questo articolo stia diventando più simile ad una lista della spesa ma non posso assumermene le responsabilità.
La colpa è di questi ragazzi che nonostante una storia travagliata, gioventù falcidiate da una guerra terribile, misero in fila tutti, dominando la scena Europea e Mondiale per decenni.
Ah dimenticavo, nel 2001 ovviamente aggiunsero l’ennesimo oro alla loro collezione di successi continentali.
Era esploso Peja Stojakovic e continuò a dimostrarlo come detto anche l’estate successiva ad Indianapolis, con Adriana Lima e compagni, ops scusate, con Jaric e compagni al seguito. Mi ri-scuso ma è stato più forte di me, Adriana è Adriana.

Nel 2006 il Montenegro ottenne l’indipendenza, la generazione di campioni degli anni ’90 era ormai al tramonto ed un cambio generazionale fu necessario.
Nonostante ciò, la sola Serbia fu in grado di una splendida medaglia d’argento agli europei del 2009 guidata da un immenso Milos Teodosic e di un ancora più incredibile secondo posto dietro agli Stati Uniti al Mondiale della scorsa estate. Indovinate un po’ chi c’era in panchina.. Sasha Djordjevic.
Il suo nome illude circa una speranza di continuità che in realtà non è mai esistita, una continuità che non è realizzabile e pensabile.
Il rimpianto per la dissoluzione di questa nazione è un rimpianto che ovviamente (e ci mancherebbe) esula dall’ambito sportivo. E’ palese ma va sottolineato a scanso di equivoci.
La certezza di avere avuto a che fare con la miglior squadra continentale di ogni epoca è assoluta.
The best team that ever was“. Petrovic, Divac, Kukoc, Radja, Danilovic, Djordjevic, Bodiroga e potrei continuare a lungo, con la sensazione di parlare di un unico gruppo, di un unico popolo e non di nazionalità diverse, di giocatori che giocano per nazioni e bandiere diverse, di cittadini che rispondono a costituzioni differenti. Dal 1992 però fu così. Si divisero e non si riunirono più.

Parlando con un amico ho davvero potuto comprendere fino in fondo cosa significhi tutto ciò.
Figlio di madre croato-cattolica e di padre serbo-ortodosso, entrambi nati in Bosnia-Erzegovina.
Nelle sue parole è raccolto il fulcro di questo pezzo, le cito testualmente:
“Io sono nato nel 1993… Non ho conosciuto nessuna Jugoslavia. So solo che se sono al mare o in vacanza con i miei amici ed incontro qualcuno che parla la mia lingua, che sia croato, serbo, bosniaco o montenegrino, per me è un Connazionale”.
“Ho lo stesso piacere nel vedere un calciatore che diventa fenomeno in tv, che sia serbo, croato o bosniaco”.

Non tutti la penseranno così ovviamente, forse esistono delle ragioni profonde che io non conosco e/o non posso comprendere per pensarla diversamente, ma io da Italiano, da esterno, la penso esattamente così e spero vivamente si sia colto a pieno.
La speranza di rivedere una squadra di pallacanestro con tutti questi connazionali uniti è un anacronismo bello e buono ed è inutile e sbagliato alimentarlo.
La miglior squadra di sempre (Stati Uniti a parte) e la miglior squadra che mai ci sarà, “the best team that ever was, the best that will never be”.
Jugoslavia per me significa questo.
Jugoslavia è un ricordo dolce-amaro, qualcosa che per chi ha vent’anni o poco più rischia di perdersi e dissolversi nel dimenticatoio.
Jugoslavia è in definitiva il simbolo di un’ingiustizia inammissibile scritta in quelle pagine della storia che avremmo volentieri fatto a meno di leggere.
Passo e chiudo.



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