Ritratto di Steven Gerrard
Dopo quella caduta la sua vita non è più la stessa – né lo sarà mai più.
E’ il ventisei Aprile. Anfield ospita il Chelsea. Mancano quattro partite alla fine del campionato. Il Liverpool è padrone del suo destino: è in testa alla classifica e se riuscisse a vincere si assicurerebbe quel titolo che ad Anfield manca da ventiquattro anni. Probabilmente basterebbe anche un solo punto. Al quarantesimo il risultato è ancora fisso sullo zero a zero. Gerrard sta giocando basso – quella è la posizione che gli consente di fare ciò per cui sembra essere nato: gestire il gioco.
Minuto 47.30. Siamo nella metà campo del Liverpool. Un innocuo passaggio orizzontale di Sakho: Gerrard con il piatto destro accarezza la palla, si gira di quarantacinque gradi facendo perno sul piede sinistro. E’ la sua classica mossa di coordinazione per aprire la prospettiva, studiare le coordinate di gioco e poi verticalizzare. Questa volta però qualcosa va storto: perde il tempo sul controllo e si sbilancia: scivola a terra e la palla scappa via. Un errore banale fatto da uno che non sbaglia quasi mai. L’errore più importante della sua vita. Demba Ba, l’attaccante del Chelsea, nel posto giusto al momento giustissimo, prende il pallone, taglia la metà campo del Liverpool e piazza un piattone alla sinistra di Mignolet che s’insacca in porta, preciso e pulito. Glaciale e Inesorabile. In quel momento ad Anfield probabilmente dev’essersi sentito il rumore di quarantamila anime che si spezzano. Un po’ quello che avete sentito dentro di voi da piccoli guardando morire la mamma di Bambi, però peggio.
Ormai l’equilibrio della partita s’è spezzato e il Chelsea alla fine vince due a zero. Poi anche l’equilibrio mentale del Liverpool s’è infrange e nelle ultime gare non riescono più a rimettersi in carreggiata. Alla fine perdono la Premier League che, prima di quella partita, prima di quella Caduta, sembrava cosa quasi fatta. Quella Premier League che Gerrard non ha mai vinto.
Per capire cosa tutto ciò possa aver significato per Stevie serve un po’ di Storia.
Steven Gerrard è nato trentaquattro anni fa nel Merseyside, a Whiston, una specie di paesino ai confini di Liverpool. Uno di quei posti in cui i colori devono essere ancora inventati. Dove c’è solo nebbia e pioggia e casette a schiera e fabbriche e ciminiere. Ci sono il porto, gli hooligan e gli operai – e tutti sono laburisti. La Periferia Proletaria. Londra è lontana e l’odiatissima Manchester è fin troppo vicina. Gli unici colori che esistono da quelle parti sono colori spirituali: il Blu e il Rosso. O sei Red o sei Tofee – Liverpool o Everton. E Stevie è sempre stato Red: il padre fin da piccolo l’ha portato nella Kop ogni volta che il Liverpool giocava in casa: Anfield è da sempre stata la sua casa – c’è cresciuto e lì vuole morire: «quando staranno terminando i miei giorni, non portatemi in ospedale, ma ad Anfield. Qui sono nato e qui voglio morire».
A nove anni il sogno inizia a prendere forma. Un talent scout locale lo nota e convince il Liverpool a comprare il suo cartellino. A diciassette anni firma il suo primo contratto professionistico. L’anno dopo, precisamente il 24 novembre 1998, debutta in Premier. Nessuno, vedendolo in campo quel giorno, avrebbe scommesso una sterlina su quel ragazzino striminzito, magro e pallido – un po’ goffo e impacciato. Nessuno però poteva vedere quello che quel ragazzino aveva dentro di sé. Un mix infuocato di rabbia e determinazione e una devozione religiosa per quel Rosso lì. Una specie particolare di Responsabilità. Stevie infatti in quel momento, così come tutte le altre 682 volte in cui è sceso in campo con quella maglia, non giocava solo per sé. «Io gioco per Jon Paul»: il 15 Aprile 1989 all’ Hillsborough di Sheffield si giocava la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest. Quel giorno, tra l’acciaio delle lamiere della Leppings Lane, morirono 96 tifosi del Liverpool. Tra questi c’era Jon-Paul Gilhooley, cugino di Stevie. Un ragazzino di dieci anni tifoso dei Reds. Stevie s’è ritrovato a crescere con addosso quella stessa maglia rossa con cui è morto Jon Paul – quella maglia che è diventata la sua seconda pelle, come un tatuaggio sull’anima.

Poi il ragazzino è cresciuto e s’è fatto uomo. Ed è diventato forte. E’ diventato il giocatore simbolo, il trascinatore e il capitano del Liverpool. L’uomo a cui qualsiasi allenatore affiderebbe il gioco della sua squadra. Quel mediano diciottenne fragilino e spaesato s’è trasformato nel miglior centrocampista dell’ultimo decennio. Una specie di factotum che non si limita a saper fare tutto, ma fa tutto da dio. L’autentico archetipo del Giocatore Totale – sa interpretare alla perfezione qualsiasi fase di gioco: difende, attacca, tira, ruba palloni, sa lanciare da qualsiasi posizione, sa tagliare, batte le punizioni e i corner ed è sempre stato rigorista. E’ una maestro nella costruzione del gioco, in grado di tessere perfette ragnatele di passaggi, e contemporaneamente sa distruggere e arginare il possesso degli avversari, intercettando palloni e spendendosi in tackle assassini – Costruttore e Demolitore. Per capirsi: quando Steve ha definito Ringhio Gattuso «un micetto che parla troppo» nessuno ha avuto nulla da ridire. Lui può dirlo.
La sua specialità, il suo marchio di fabbrica, è la Sassata Inesorabile, la fucilata millimetrica dalla distanza. Niente giochetti da fichette europee o da mocciosi sudamericani. Stevie è inglese: niente “maledetta” o altri giri strani – semplicemente un tiro talmente potente e preciso che non può che insaccarsi in fondo alla rete. Geniale nella sua semplicità e bellezza, come una canzone dei i Beatles, suoi concittadini.
E di gol ne ha segnati una caterva e in tutti i modi possibili. Sentite Titì Henry: «Lui è un centrocampista e se tu pensi a tutti i gol importanti che ha segnato – be’, io non riesco a pensare nemmeno ad un attaccante che nel mondo abbia segnato così tanti gol importanti, figuriamoci un centrocampista. Quante volte ha segnato alla negli ultimi secondi di un match? Sto cercando di pensare ad un attaccante odierno che segni così – non ce ne sono. Pensateci su». Pensate finché volete ma non troverete nulla. Henry ci sta dicendo che, al di là della sua maestria tecnica, quello che ti resta inciso quando vedi Stevie giocare è la sua tenacia, la sua speranza indistruttibile. Finché non è finita è giusto, anzi è un dovere, credere e combattere. Perché non giochi per te stesso, ma per la tua gente, e devi sempre dimostrati degno del loro tifo e della loro Speranza. Stevie sa di dover essere sempre all’altezza di quel Rosso lì.
Responsabilità è la parola chiave per cercare di capire Stevie. Ce l’ha incisa sulla faccia, come una sentenza. Quella faccia che ha sempre un’aria po’ cupa e pallida – quasi fosse sempre velata da una profonda tristezza. Stevie è sempre crucciato: non ha l’aspetto del Tronista Lampadato che hanno molti calciatori, né l’aria vanagloriosa e irritante del divo. Lui è più old school. Viene dal Merseyside. E soprattutto ha scelto di rimanerci. Non si è mai conciato come uno dei Backstreet Boys – assomiglia più a un soldato, uno di quei marine depressi appena tornati dal Vietnam. E’ duro e puro, parla poco. Per lui il calcio è una Cosa Seria, una Missione e una Guerra. Ed è per questo ch’è il Cocco della Kop – perché ha sempre mantenuto quell’aspetto da proletario guerriero che lotta per un po’ di Colore. Le facce che si vedono nella Kop sono simili alla sua. E i tifosi guardandolo giocare si riconoscono in lui, si sentono rappresentati. E’ un po’ come se fosse la città a giocare attraverso di lui, come in una Transustanziazione. E lui sa di avere questa Responsabilità.
Forse è un po’ per questo che Stevie è sempre circondato da quell’atmosfera inspiegabile e inconfondibile che ti fa pensare, guardandolo, “questa è Roba Vera”. Che poi è l’Aura che hanno i Leader, quella roba che ce l’hai o non ce l’hai – non la impari. Lui ce l’ha. E’ un Dono che però ti obbliga a rialzarti quando cadi, perché con te è caduta anche la tua gente: «gli ultimi tre mesi sono stati probabilmente i peggiori della mia vita. Quando accadono cose di questo tipo devi alzarti ed essere uomo abbastanza da affrontarle. Non ti resta che accettare quanto è accaduto. Non puoi cambiare nulla. Ora però devo rialzarmi. Sono il capitano del Liverpool e non posso permettermi di abbattermi».
Ecco perché dopo quella Caduta la sua vita non è più la stessa, né lo sarà mai più.
Sa di aver tradito la fiducia e la speranza della sua gente. Ma è uno di loro, il Capitano del Liverpool, e loro lo sanno. Ora, forse anche più di prima, nonostante tutto loro saranno dalla sua parte, al suo fianco. Lì per aiutarlo a rialzarsi dopo la caduta. Perché Liverpool si può rialzare e tornare a vincere solo se Stevie la prende per mano e si rialza con Lei.
In bocca al lupo Campione Caduto. Tanto lo sai: You Will Never Walk Alone.
Federico Bianchi