“Xoloitzcuintli”: El Cholo Simeone
“Xoloitzcuintli”: impensabile e meraviglioso sapere da dove deriva “El Cholo”, soprannome di un uomo più che mai affascinante nel calcio contemporaneo. Si definisce «porteño», aggettivo che letteralmente significa «del porto» e che contrassegna gli abitanti di Buenos Aires, capitale argentina. È lì, in un’ospedale di Avenida José María Moreno, che alle 5 e trenta del 28 aprile 1970 viene alla luce Diego Pablo Simeone, soprannominato, appunto “El Cholo”.
“Xoloitzcuintli”, dicevamo. Che storia affascinante quella del popolo azteco. Così come quella del Cholo. Proprio così, “El Cholo” significa “meticcio, particolare incrocio di razze” ed è la trasposizione letterale di questo antico vocabolo azteco.
Proviamo a raccontarlo Diego Pablo Simeone, leader nato e, ora, davvero sbocciato.
Sì perchè leader si nasce, e se non lo sei è meglio lasciarlo fare a qualcun altro. Oppure è meglio non fare l’allenatore dell’Atletico Madrid. Diego Pablo Simeone è, appunto, un leader nato, come pochi altri a questo mondo, lo vedi da come si muove nell’area tecnica, ogni gesto è energia pura, ogni movimento è il riflesso di un impulso da condottiero. E lo osservi, lì, indemoniato a bordo campo, in quell’area tecnica che ora è il suo regno, ideale tanto quanto forzato, perchè un leone non è fatto per stare in gabbia, e quelle linee che delimitano il suo spazio lo sono, per lui.
Simeone inizia a giocare ad alto livello nelle giovanili del Velez Sarsfield, in patria. E’ proprio qui che, all’età di 14 anni, gli viene affibiato il soprannome “El Cholo” da Victorio Spinetto, allora responsabile del settore giovanile della società (negli anni ’30 difensore con il vizio del gol), che rivide in lui la grinta di Carmelo Simeone, difensore del Velez e del Boca degli anni ’50 e ’60 e soprannominato, appunto, Cholo, meticcio. Victorio Spinetto vide il piccolo Diego tirare i primi calci al pallone nel Club Villa Malcom, squadra del quartiere Palermo Viejo di cui il Cholo è originario. Prima dell’approdo al Velez il giovane Simeone passa dall’Estrella De Oro di Avenida Caseros e dal Gimnasia y Esgrima.
Esordisce in Primera Division, al “Josè Amalfitani”, casa del Velez, a 17 anni. Un mese dopo arriva il suo primo gol, vizio che non perderà mai, nonostante le mansioni di centrocampista di contenimento, per così dire. Ma quel che non passa inosservato è la grinta di un predestinato, di un lavoratore vincente, “condannato” a vincere con il sudore, partendo dal basso. Per questo Diego Simeone è stato idolo e simbolo per tutte le tifoserie delle squadre in cui ha giocato, tra le quali, ovviamente, la nazionale argentina e la sua tifoseria più grande, ovverosia, tutto il popolo argentino, passionale e orgoglioso di vederlo indossare la prestigiosa maglia albiceleste dal 14 Luglio 1988.
Inevitabile, nello splendore calcistico italiano degli anni ’90, che un giocatore come lui non arrivasse nel Bel Paese. Se ne accorge per primo Romeo Anconetani, che lo porta a Pisa. Non bastano i suoi 4 gol per evitare la retrocessione della squadra toscana guidata da Mircea Lucescu, ma Diego decide comunque di scendere nella serie cadetta, perchè lasciare la barca mentre affonda non fa per lui, proprio no. Simeone se ne andrà l’anno successivo, e, nonostante sia ancora giovane e un po’ acerbo, vince due volte la Copa America e va in Spagna, prima al Siviglia e poi, finalmente, all’Atletico Madrid. Già, l’Atletico. Il Real degli anni ’90 avrebbe bisogno di un centrocampista come lui, in grado di cucire un impianto di solisti troppo abiituati a non sporcarsi quella intonsa maglietta bianca. Ma il destino, alle volte, è lungimirante, e, in qualche modo, come dire… giusto. Lui diventa un “Colchoneros”, la squadra operaia della capitale, quella destinata a vivere nell’ombra dell’ altra, quella destinata ad avere meno soldi, meno campioni, meno coppe in bacheca.
“L’Atletico è la squadra del popolo. Il popolo normalmente prende come riferimento le persone che hanno bisogno di faticare e dare tutto per raggiungere dei risultati. Noi siamo la squadra del popolo, ed è per questo che la gente ci segue e ci rispetta.” Diego Pablo Simeone
Diventa un centrocampista totale, a Madrid passa tre stagioni coronate con la vittoria della Liga e della Coppa Nazionale nel 1996. Realizza 12 reti, protagonista indiscusso. Torna in Italia, prima all’Inter di Gigi Simoni e di Ronaldo Il Fenomeno, con cui avrà inevitabili frizioni. Vince una Coppa Uefa, proprio contro quella che sarà la sua futura casa, la Lazio. La Lazio di Cragnotti diventa il suo ambiente naturale grazie al folto gruppo argentino pronto ad accoglierlo, nonostante lo scontro con l’altra testa calda, Fernando Couto, con cui viene alle mani nella trasferta di Cagliari. La Lazio precipita a -9 dalla Juventus capolista prima dello scontro diretto, in cui, Simeone, appunto, segna il gol della svolta, al quale aggiunge 3 reti nelle ultime 4 giornate. Reti che tengono viva la squadra di Eriksson fino all’ultima giornata, dove al Renato Curi va in scena il Perugia-Juve che impantana i bianconeri. Conosce la gloria dello scudetto, il Cholo. Vince, finalmente, e, ovviamente, senza i favori del pronostico. Si romperà il crociato nel 2001, torna 6 mesi dopo per riprendere il comando della Lazio e segnare, in quel 5 maggio 2002, il gol del 3-2 che mette in ginocchio l’Inter, la sua Inter. L’atmosfera è surreale all’Olimpico, i nerazzurri hanno lo scudetto in mano, il popolo biancoceleste spera nella vittoria nerazzurra per evitare lo spauracchio Roma. Ma la Lazio quella partita la gioca per davvero, perchè Simeone non sa fare il contrario. Tornerà nella Madrid biancorossa per chiudere la carriera da giocatore e iniziare poi, inevitabilmente, quella da allenatore. E l’Atletico, dopo un suo breve girovagare, era lì, pronto ad accoglierlo.



“Si sapeva che il Cholo, per come stava in campo, sarebbe stato un grande allenatore. Ha tanto da dare a questo calcio. È un vincente, uno che non molla mai.” Javier Zanetti
Esatto. Perchè quelli destinati li vedi prima. Li guardi in campo e pensi: lui sarà un allenatore. E ognuno lo sarà a immagine e somiglianza di quel che era all’interno del rettangolo verde, con gli scarpini ai piedi. Il Cholo è esempio lampante di questa grande coincidenza. Lui che quando giocava era sempre pronto a dare indicazioni, a sbracciarsi e guidare i compagni. Non poteva non spostarsi qualche metro più in là, in panchina. In piedi però, vicino, mai seduto. Perchè lui seduto non ci sa stare, e con una pacca sulla spalla vi direbbe: “Io alleno, ma seduto lì ci stai tu”.
La storia del Cholo allenatore è recente, e la conosciamo. La sua prima esperienza arriva in patria, ad Avellaneda, sponda Racing. Passa all’Estudiantes dove trova il suo ex compagno Veron, ancora intento a dipingere meraviglie in campo. Vince il campionato d’Apertura battendo il Boca. Esperienza infelice al River prima del ritorno in Italia, al Catania tutto argentino, che non solo salva, ma con il quale stabilisce il record di punti societario in Serie A. Di nuovo Racing, prima dell’avventura all’Atletico Madrid, ereditato nel Dicembre 2011. Il primo anno porta a casa l’Europa League, vincendo tutte e 9 le partite della competizione. Sarà il primo allenatore argentino a sollevare il trofeo. Seguono Supercoppa, inizio anno 2012-2013, ai danni del Chelsea, Copa del Rey e terzo posto in campionato che significa Champions League. E’ la stagione 2013-2014 a consacrarlo definitivamente come uno dei migliori tecnici al mondo. Vince la Liga all’ultima giornata, dopo un campionato straordinario e impensabile. Arriva in finale di Champions, anzi, arriva ad un minuto dalla conquista della coppa. Solo la zuccata di Sergio Ramos, nei minuti di recupero della finale di Lisbona, gli impedirà di alzare al cielo la coppa dalle grandi orecchie e firmare uno storico doblete. Storico non tanto per il risultato in sé, già riuscito ad altri club e tecnici, quanto per il materiale a disposizione.
E dio solo sa di cosa staremmo parlando se il colpo di testa di Ramos fosse finito qualche centimetro più in là. Ma così va il calcio e, se volete, anche la vita.
Tutti lo hanno visto calcare i campi di calcio a centrocampo, a fare il lavoro sporco per recuperare il pallone e consegnarlo a chi “ha il dono”, quelli con il numero 10 per intenderci. Ma a lui il numero 10 non serviva, non gli si addiceva, a lui la maglietta piaceva sporcarla di fango, a lui piaceva rubarla la palla, a quei numeri 10, quelli avversari. E il recupero palla è ora, da allenatore, il segreto del suo calcio, che poi tanto segreto ormai non lo è più.
Vedere l’Atletico Madrid di Diego Simeone è come spararsi una scarica di adrenalina in endovena. Dal punto di vista psicologico è la proiezione perfetta del suo spirito guerriero, un gruppo di uomini disposti a immedesimarsi nel credo del suo condottiero. Dal punto di vista tattico è la sintesi di tanti principi di gioco assimilati dal calcio contemporaneo, quel che è più evidente è la cura nel pressing difensivo attivo di lampante mourinhiana impostazione: il dominio del pallone lo lascio all’avversario, a me interessa coprirne ogni possibile sfogo, non c’è luce di passaggio disponibile per chi sfida i Colchoneros, motivo semplice e chiaro per cui il Barcellona di Martino non ha mai vinto contro l’Atletico nella stagione 2013/14, fino all’1-1 del Camp Nou all’ultima giornata che consegna la Liga al Cholo, nonostante gli infortuni e una finale di Champions ancora da giocare.
E non è un caso che Simeone abbia dichiarato di voler ripercorrere da allenatore la stessa carriera di quando era in campo. Atletico Madrid, Inter e Lazio sono società che incarnano perfettamente gli ideali del Cholismo, un modello, o meglio, una filosofia, di gioco, anzi, di pensiero, quasi di vita. Perchè tatticamente parlando le innovazioni del Cholo sono riconoscibili e prendono spunto da dettami già ampiamente esplorati da altri allenatori. E’ ciò che si cela nel profondo a rendere il Cholismo qualcosa di veramente speciale. Perchè nel calcio, e nella vita, se sei abituato a soffrire, hai una marcia in più. Quelli vincenti, belli, che si guardano allo specchio, non sempre vanno lontano, e alla prima difficoltà si autodistruggono. Vincere lavorando, soffrendo, senza i favori del pronostico, invece, è infinitamente più bello. E il Cholo ce lo ha insegnato.
“Si se cree y se trabaja, se puede“. (“Se ci si crede e si lavora, si può.”) Diego Pablo Simeone